TERZA VIA
NAVIGAZIONE - RICERCA

Pubblica Sicurezza

A 70 anni di distanza dalla fine del regime fascista, penso che il paese abbia acquisito sufficienti anticorpi x poter affidare con tranquillità la sicurezza interna ad un unico corpo di Polizia, senza tema di devianze golpiste.

Penso quindi che siano maturi i tempi per affidare la pubblica sicurezza ad un unico corpo di polizia che faccia capo militarmente ad un Comandante Generale e politicamente al Ministero degli Interni, sopprimendo gli attuali Corpi di: Polizia - Carabinieri - Finanza e Forestale, attualmente operanti in compartimenti stagni e, non di rado, in competizione  e/o sovrapposizione funzionale.

Chiaramente all'interno del Corpo di Pubblica Sicurezza unificato, vanno distinti comunque quattro settori operativi, con competenze specifiche nella Sicurezza Alimentare, Ambientale, Fiscale e Pubblica, dotati ciascuno di organico e mezzi qualificati alle specifiche funzioni operative.

Un'impostazione simile della sicurezza interna nazionale oltre a semplificare il riferimento pubblico per il ricorso dei cittadini,  permetterebbe un notevole recupero di sedi operative, mezzi ed uomini, con conseguente recupero di risorse finanziarie.

Essenziale supporto all'azione del Corpo di Pubblica Sicurezza, per garantire la sicurezza interna del paese, è l'attività di intelligence che l'Agenzia di Informazione per la Sicurezza Interna (A.I.S.I.) è chiamata a svolgere capillarmente su tutto il territorio nazionale al fine di conoscere, aprioristicamente, e prevenire tutte quelle azioni che potrebbero turbare la pubblica sicurezza.

Detta Agenzia dovrebbe essere costituita da elementi dello stesso Corpo di Pubblica Sicurezza, adeguatamente addestrati per svolgere la delicata missione e far capo al  Comandante Generale dello stesso corpo che a sua volta, dovrebbe far riferimento al Ministro degli Interni, in uno al Presidente del Consiglio, se richiesto.

 

   Amaro

Difesa Nazionale

La difesa delle frontiere nazionali da possibili attacchi esterni va affidata alle forze armate (FF.AA.) così costituite:

  • Aeronautica Militare, specializzata in operazioni aeree;

  • Esercito Militare, specializzato in operazioni terrestri;

  • Marina Militare, specializzata in operazioni marine.

Il compito di polizia militare, oggi affidato ai Carabinieri, nel momento in cui questi confliuiranno nel Corpo di Pubblica Sicurezza unificato  dovrà passare sotto il controllo di quest'ultimo e, viceversa, il compito di polizia interna sul Corpo di Pubblica Sicurezza dovrebbe passare sotto il controllo dell’Esercito.

Ciascuna forza armata fa capo ad un Capo di stato maggiore e tutti e tre fanno capo al Capo di stato maggiore della difesa (vertice militare FF.AA.), che risponde direttamente al Ministro della Difesa, nonchè al Presidente della Repubblica, se richiesto.  Per qualsiasi intervento bellico la competenza è affidata al Consiglio supremo di difesa, presieduto dal Presidente della Repubblica, quale Comandante supremo delle forze armate, e composto dai tre Capi di stato maggiore più il Capo di stato maggiore della difesa, dal Comandante generale della Pubblica Sicurezza, più il Presidente del Consiglio ed i Ministri dell'Interno e della Difesa.

Essenziale supporto all’azione delle forze armate, per garantire la sicurezza esterna del paese, è l’attività d’intelligence, affidata all’Agenzia di Informazioni e Sicurezza Esterna (A.I.S.E.), che è chiamata a svolgere nei paesi più importanti del mondo, a cui ci legano interessi politici ed economici, per la conoscenza aggiornata degli indirizzi geopolitici e strategici mondiali.

Detta Agenzia dovrebbe essere costituita da elementi provenienti da ciascuna delle tre forze armate, appoggiati prevalentemente presso le Ambasciate italiane all'estero, e far capo al Capo di stato maggiore della difesa, che dovrebbe rispondere direttamente al Ministro della Difesa, nonchè al Presidente della Repubblica, se richiesto.

   Amaro

Il Potere Giudiziario

Prerogativa della magistratura, alla quale è affidata l’amministrazione della giustizia in osservanza alle leggi vigenti.

Questa è organizzata secondo un ordinamento autonomo al cui apice è collocato il Consiglio Superiore della Magistratura (C.S.M.) che, più appropriatamente, andrebbe presieduto, direttamente, dal Ministro di Grazia e Giustizia e/o da un suo qualificato delegato, anziché dal Presidente della Repubblica, come previsto attualmente in Costituzione, in modo da avere un rapporto dialettico e collaborativo più stretto tra Magistratura e lo stesso Ministero, assegnando, nel contempo, al Presidente della Repubblica un ruolo effettivamente super partes rispetto ai tre Poteri Istituzionali riconosciuti dalla nostra Costituzione.

Conservando sempre la distinzione tra le tre procedure: penale, civile ed amministrativo, a partire dal basso, l’ordinamento giudiziario dovrebbe contemplare i seguenti livelli:

  • Uffici Comunali di Conciliazione, posti a carico dei Comuni ospitanti, per la sede, gli arredi ed il personale ausiliario, ai quali affidare il ruolo di filtro primario del contenzioso, con competenza limitata a quella attualmente imposta ai giudici di pace ed ai giudici onorari. Questi uffici, affidati alla gestione degli attuali giudici di pace, nominati dal Ministero di Grazia e Giustizia, dovrebbero essere operativi in tutti i Comuni di almeno 5000 abitanti, e ad essi si dovrebbe poter ricorrere direttamente da parte dei cittadini, senza vincolo all’assistenza legale.
  • Preture circondariali per giudizi di 1° grado, da affidare ad un magistrato togato monocratico, con funzione requirente e giudicante, al quale attribuire competenza in tutti gli altri processi che vanno al di là delle competenze demandate agli Uffici di Conciliazione. Queste andrebbero distribuite sul territorio nazionale in ragione di una ogni 100.000 abitanti minimo ed a copertura di un raggio di azione non superiore a 50 Km.
  • Tribunali provinciali per giudizi definitivi di 2° grado da affidare ad un collegio giudicante di almeno 3 magistrati  togati. 
  • Corte d‘Appello o Cassazione a livello nazionale, per giudizi eccezionali di 3° grado affidati ad  un collegio giudicante costituito da almeno cinque magistrati togati.

Va precisato che l’appello in Cassazione per il 3° grado dovrà essere consentito, inequivocabilmente, solo  in caso di produzione di nuove ed importanti prove ai fini della revisione del  processo di 2° grado, o quando i giudizi di 1° e 2° grado risultino diametralmente opposti.

Alla magistratura si dovrebbe accedere per corso - concorso pubblico ed i relativi sviluppi di carriera, consistenti nel passaggio di livello tra quelli innanzi previsti per l’intero ordinamento giudiziario, dovrebbero essere legati ai titoli ed ai curricula professionali dei singoli magistrati (con riferimento specifico al numero di processi portati a termine, oltre alla valenza socio - economica degli stessi).

La carriera giudiziaria dunque dovrebbe iniziare con un’esperienza, almeno quinquennale, nelle Preture Circondariali e, solo dopo questa esperienza formativa e qualificante, si dovrebbe poter passare, sempre mediante concorso interno per titoli e curricula professionali, a ricoprire il ruolo di magistrato requirente nelle Procure provinciali, per un periodo non inferiore ad un altro quinquennio, al fine di poter  acquisire un’ulteriore esperienza professionale nella conduzione di indagini giudiziarie, molto utile ai fini di una valutazione critica ed impersonale delle prove processuali per arrivare a dei convincimenti obbiettivi sia ai fini di una proposizione penale sia ai fini di una pronuncia di sentenza.

Dopo questi due periodi di esperienza preliminare e comune a tutti i magistrati, questi dovrebbero essere in grado di scegliere, in via definitiva, il ruolo di appartenenza per il successivo sviluppo di carriera: ruolo requirente, come Pubblico Ministero, o ruolo giudicante, come Giudice per le Indagini Preliminari, ruoli che sarebbe opportuno mantenere  distinti e separati, onde  evitare possibili  reciproche influenze e/o interferenze tra gli operatori dell’uno e dell’altro ruolo, benché facenti capo ad un unico organo di governo dell’intera magistratura qual è l’attuale Consiglio Superiore della Magistratura.

Detto organo potrebbe essere costituito da 13  membri:

  • uno designato dal Ministero di Grazia e Giustizia, con funzioni di Presidente;
  • quattro designati dal Parlamento (due dal gruppo di  maggioranza e due dal gruppo di minoranza);
  • sei in rappresentanza dell’Ordine dei Magistrati, tre giudicanti + tre requirenti;
  • due membri di diritto: 1° Presidente e Procuratore generale della Corte di Cassazione.

Per concludere l’argomento, ai magistrati, come ad ogni singolo cittadino, va riconosciuto il diritto di voto sia attivo che passivo, ma l’esercizio di quest’ultimo dovrebbe essere incompatibile con il successivo rientro in magistratura, così come incompatibile dovrebbe essere l’iscrizione a partiti politici nazionali e/o a correnti interne alla magistratura nel corso della carriera giudiziaria, in quanto la magistratura dovrebbe essere “ super partes” e quindi neutra.

In tema di incompatibilità in senso lato, infine, si ravvisa la necessità di introdurre il principio generale del divieto di cumulo: di mandati politici e/o incarichi professionali pubblici alle cariche istituzionali degli stessi magistrati, a meno che il trattamento economico non sia commisurato soltanto al più remunerativo di essi.

Al di sopra di detti organi istituzionali è da porre la Corte Costituzionale, organo istituzionale al quale sono demandati i compiti di interpretazione e salvaguardia della Costituzione, di verifica e controllo della rispondenza costituzionale delle leggi licenziale dal Parlamento e/o ammesse a referendum popolare, nonché arbitro in materia di contenzioso tra i tre poteri dello stato, con parere vincolante per le parti in causa.

Detto organo potrebbe essere costituito da 15 membri:

  • uno su designazione del Presidente della Repubblica, con funzioni di Presidente;
  • uno su designazione del Presidente del Consiglio;
  • uno su designazione del Presidente del parlamento (monocamerale);
  • sei designati dal Parlamento (tre dal gruppo di maggioranza e tre dal gruppo di minoranza);
  • sei designati dal Consiglio Superiore della Magistratura (tre magistrati del ruolo requirente e tre del ruolo giudicante);

Tenuto presente, infine, che l’operato, sia dei rappresentanti del potere esecutivo che di quello legislativo, è soggetto al vaglio elettorale e quindi in definitiva risponde al giudizio degli elettori, è opportuno che anche quello dei rappresentanti del potere giudiziario risponda, se non agli elettori, o agli apparati degli altri due poteri, per il rispetto del principio di indipendenza reciproca, almeno ad un organo esterno a quello di autogoverno, per evitare appunto che la magistratura diventi una casta intoccabile, al di fuori di ogni possibile controllo esterno.

In quest’ottica, l’organo esterno più idoneo al controllo della magistratura potrebbe essere costituito proprio dalla Corte Costituzionale, la cui collocazione è al di fuori e al di sopra dei tre poteri di cui innanzi.

A quest’organo, quindi, potrebbero essere deferite tutte le richieste di provvedimenti avanzate dal Ministro della Giustizia, che non abbiano trovato soddisfacente risposta presso il C.S.M., organo di autogoverno della Magistratura, ivi compresa la definitiva risoluzione delle ricorrenti controversie circa l’attribuzione di responsabilità in merito alle disfunzioni e lentezze della macchina giudiziaria, addebitate dal potere esecutivo alla magistratura e da questa, a sua volta, rinviate al mittente, per quanto riguarda la carenza di organico e di fondi per spese correnti, ed al potere legislativo, di competenza parlamentare, per quanto riguarda la revisione ed aggiornamento sia legislativo che procedurale dei processi, al fine di una sostanziale riduzione dei tempi giudiziari.

  Amaro

Sistema Bancario

Nel settore della gestione finanziaria del risparmio nazionale, si avverte il bisogno di una revisione globale,  sia in ordine alla necessità di un controllo pubblico delle disponibilità finanziarie nazionali a fini statistici, sia in ordine all’esigenza di garantire a tutti i cittadini, nell’ambito dell’intero territorio nazionale, le stesse condizioni di accesso al credito e non ultimo quello di ridurre il costo del denaro, a fronte di una gestione di bilancio a pareggio; operando peraltro con una struttura più snella, anche se presente con propri sportelli direttamente e/o indirettamente in tutti i centri urbani. del territorio nazionale.

A fronte di dette premesse, scaturisce l’opportunità, se non la necessità, di far confluire l’eterogeneo sistema bancario attuale, in un'unica istituzione pubblica e/o di diritto pubblico, anche se a gestione autonoma come la nostra Banca d’Italia, per la gestione sia dei depositi che dei prestiti a livello nazionale.

A loro volta, le banche nazionali dei paesi europei a moneta comune, dovrebbero far capo alla Banca Comune Europea (B.C.E.), quale Ente di rappresentanza ed insieme di controllo sopranazionale, il cui Consiglio di Amministrazione dovrebbe, opportunamente, essere costituito da un rappresentante per ciascun paese aderente alla zona euro.

Con detta architettura bancaria, le banche nazionali dovrebbero poter accedere direttamente ai prestiti comunitari della B.C.E. per coprire  le necessità finanziarie dei singoli Stati membri, con tasso di sconto uguale per tutti.

Nell’ipotesi di cui innanzi, la Grecia non si sarebbe dissanguata e l’Italia, nel solo anno 2012, avrebbe potuto ridurre gli interessi relativi al suo debito pubblico da 86 miliardi, effettivamente  pagati, a soli 6 miliardi, recuperando ben 80 miliardi, utilizzabili per saldare in primis i debiti della pubblica amministrazione, in secundo alleviare la fiscalità generale e, con l’avanzo, alleggerire la mole del debito pubblico dello Stato.

Accanto all’istituto bancario pubblico di cui innanzi e sempre sotto il suo controllo, potrebbe essere consentita la presenza anche di banche d’affari ed agenzie finanziarie di interesse privato, a cui affidare la trattazione di tutti gli altri prodotti e servizi finanziari, esclusi quelli affidati all’istituto bancario pubblico.

La nazionalizzazione del sistema bancario consentirebbe ai singoli Stati di controllare in via diretta tutto il flusso del denaro (in entrata ed in uscita dal paese) sia a fini fiscali che giudiziari e, cosa ancora più importante, detenere il timone della finanza e quindi dell’economia nazionale, garantendo nel contempo, omogeneamente sull’intero territorio nazionale, parità di trattamento in riferimento ai tassi sia attivi che passivi, oltre a consentire un controllo più stretto della politica monetaria, atto ad impedire, com’è successo nel recente passato, la crescita smodata dei tassi d’interesse sui vari prodotti finanziari immessi sul mercato, causa primaria della vertiginosa lievitazione del nostro debito pubblico.

   Amaro

W.T.O. (World Trade Organization / Organizzazione Mondiale del Commercio)

L'Organizzazione Mondiale del Commercio, meglio conosciuta con il nome inglese di World Trade Organization (WTO), è un organismo internazionale istituito il 1º gennaio 1995, a seguito dei negoziati che, tra il 1986 ed il 1994, hanno impegnato i paesi aderenti al GATT ed i cui risultati sono stati sanciti nell’”Accordo di Marrakech”" del 15 aprile 1994.. Detto organismo è stato creato allo scopo di regolamentare il commercio mondiale, ruolo precedentemente svolto dal GATT (General Agreement on Tarifs and Trade), sigla attribuita all’Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio concluso a Ginevra nell'ottobre del 1947 da 23 dei paesi partecipanti alla commissione preparatoria della Conferenza Internazionale per il commercio e l'occupazione.

Esso ha infatti ereditato tutti gli accordi e le convenzioni già in essere nel GATT, con l'incarico di continuarne l’amministrazione ed estenderli; a tutti gli stati membri del WTO.

La sua sede è Ginevra, in Svizzera, dove è  stata istituzionalizzata un’adeguata struttura organizzativa alla quale, ad oggi, aderiscono 160 Paesi, a cui si aggiungono 24 Paesi osservatori che, complessivamente, rappresentano circa il 97% del commercio mondiale di beni e servizi.

Obiettivo generale del WTO quindi è quello dell'abolizione o della riduzione delle barriere doganali  e tariffarie al commercio internazionale e; a differenza di quanto avveniva in ambito GATT, la sua normativa ha per oggetto, non solo i beni commerciali, ma anche i servizi e le proprietà intellettuali .

Ma le funzioni principali del WTO si identificano nelle seguenti due:

  • quella di forum negoziale per la discussione sulla normativa del commercio internazionale (sia esistente che nuova);
  • quella di organismo per la risoluzione delle dispute internazionali sul commercio.

La nascita di detto organismo è dovuta alla pressione produttiva e quindi economica dei Paesi ad economia avanzata, che non riuscendo più ad assorbire al proprio interno l’enorme produzione aziendale, cresciuta esponenzialmente per via dello sviluppo tecnologico sempre più spinto, hanno cercato sbocchi mercantili al di fuori dei propri confini nazionali.

Il numero dei paesi aderenti è andato crescendo nel tempo fino ad arrivare a coinvolgere quasi l’intera popolazione terrestre per cui si può, a ragione, dire che si è giunti a creare un mercato globale.

Parallelamente all’incremento della produttività aziendale, lo sviluppo tecnologico ha permesso di ridurre sempre più la forza lavoro, animale prima ed umana dopo.

Questo mercato, diventato transnazionale e transcontinentale, se all’origine ha creato spazio commerciale per le aziende dislocate nei Paesi più evoluti ed attrezzati tecnologicamente, sostenendo sempre più il loro ritmo di produzione e di conseguenza trainando anche l’economia dei rispettivi paesi, alla distanza sta facendo registrare un riflusso commerciale di notevoli proporzioni, con conseguenze occupazionali inimmaginabili e difficilmente recuperabili.

Questo perché per sostenere la domanda estera si doveva elevare il tenore di vita dei paesi coinvolti nel mercato e l’unica soluzione era quella di trasferire in essi la produzione per offrire lavoro e conseguente reddito e capacità di acquisto alle popolazioni coinvolte.

Oltretutto l’operazione affrancava le stesse aziende dagli oneri di trasporto delle merci dai loro paesi d’origine  a quelli  commercialmente serviti.

E siccome l’appetito vien mangiando, la parziale delocalizzazione iniziale delle aziende, di fronte al notevole differenziale salariale dei nuovi paesi di espansione commerciale, specie del medio e più ancora dell’estremo oriente, oltre alla quasi totale assenza di organizzazioni sindacali ed al basso onere fiscale, è diventato, nel tempo, un fiume in piena, sguarnendo del tutto i centri di produzione dei paesi d’origine per approdare nei paradisi produttivi e fiscali a minor costo, con conseguente inversione del flusso delle merci che adesso invadono i paesi occidentali, prima esportatori.

Quindi, l’ampliamento dell’area mercantile oltre i confini del proprio paese che all’origine sembrava un’opportunità per continuare a produrre e tenere alto l’indice di occupazione, alla distanza si è rivelato un boomerang, in quanto difficilmente riassorbibile l’enorme differenziale dei costi di produzione dalle imprese dei Paesi occidentali, socialmente più evoluti sia in termini di livelli salariali che garanzie sociali raggiunte (orario di lavoro settimanale, copertura sanitaria, assicurativa, assistenziale e previdenziale), frutto di dure e continue lotte sindacali.

E mentre alle imprese resta pur sempre una via d’uscita, quella dell’eventuale delocalizzazione delle loro aziende nei paesi emergenti, per gli addetti ai lavori dei Paesi socialmente più avanzati dell’Occidente questo si traduce, amaramente ed irrimediabilmente, in perdita secca di posti di lavoro, con incremento crescente della disoccupazione.

E non è assolutamente credibile, al contrario di quanto in  più ambienti si pontifica, che questo gap sia  del tutto superabile  col solo ricorso ad una forte accelerazione della ricerca scientifica ed applicata e ad una appropriata riorganizzazione ed internazionalizzazione del sistema produttivo e commerciale nazionale.

Questo dimostra che la W.T.O. è nata su prospettive sbagliate o perlomeno di corto respiro, non adeguatamente ponderate né dal punto di vista economico né dal punto di vista socio - politico;  infatti non sarebbe stato difficile prevedere che in prospettiva, dal confronto commerciale tra paesi con enorme differenziale sociale, i paesi più progrediti ed avanzati avrebbero subito un pesante attacco di concorrenza commerciale da parte dei paesi con livelli salariali infimi e sistemi di garanzie sociali più arretrati o addirittura inesistenti.

E questo confronto diventa impietoso se i paesi di riferimento sono quelli dell’estremo oriente con in testa la Cina, entrata a far parte del WTO a dicembre del 2001, i quali oltre ad avere alle spalle una cultura storica millenaria ed essere dotati di enorme capacità di assimilazione e  dinamismo imprenditoriale,   sono anche guidati, per lo più, da regimi più o meno assolutistici, in grado di decidere ed adeguare la loro politica economica nazionale alle circostanze con celerità impensabile nei paesi a gestione democratica, come in occidente.

Per cui, se è vero che i processi storici non si possono bloccare ma solo correggerne il percorso, vanno ripensate norme e condizioni per l’adesione alla suddetta Organizzazione Mondiale del Commercio, almeno sulla base di un equivalente sistema di garanzie sociali attinenti il mondo del lavoro dei Paesi membri; conditio sine qua, non è possibile correggere le distorsioni fin qui prodotte, e  producibili ancor più in futuro, dal mercato globale.

D’altra parte non si vede perché non si possano e debbano imporre severe e precise condizioni socio economiche, oltre che strettamente commerciali, per l’accesso al mercato mondiale ad un paese, come ad esempio la Cina che, con una popolazione di circa 1.350.000.000 abitanti, pari al 20 % circa dell’intera popolazione terrestre, ha avuto uno stravolgente impatto economico sull’intero sistema commerciale mondiale, quando per l’accesso nell’Unione Europea di Stati insignificanti, sia per estensione territoriale che demografica, vengono poste condizioni socio – economiche e per di più politiche ben più restrittive.

A conclusione, spero solo che le attuali condizioni di difficoltà economiche in cui versa tutto il mondo occidentale, in prospettiva sempre più pesanti, inducano i governanti dell’Unione Europea a prendere atto che, al di là dell’anacronistica difesa degli interessi nazionali di piccolo cabotaggio, nei confronti degli altri paesi dell’Unione, il vero pericolo viene dal mondo esterno all’Unione, ed in particolare dai paesi dell’estremo oriente, Cina ed India in testa, che da soli costituiscono il 36 % dell’intera popolazione mondiale, con i loro 2.500.000.000 abitanti.

La situazione, quindi, esige un atto di responsabilità e di coraggio da parte dei politici europei  per arrivare, quanto prima, alla costituzione di un vero e proprio organismo di governo soprannazionale, in grado di uniformare, all’interno dell’Unione, tutta la normativa giuridica, economica, sociale e fiscale, e che, all’esterno, possa esprimersi con un’ univoca linea di politica estera, a salvaguardia degli interessi dell’Unione Europea.

Se ciò non fosse possibile, ogni Stato dell’Unione, e quindi anche l’Italia, dovrebbe adottare una norma di salvaguardia a protezione della propria produzione interna, che permetta l’importazione solo della quota eccedente la propria produzione nazionale rispetto alla quota  di consumo nazionale stimata annualmente, specie nel settore dei prodotti agricoli.

 

  Amaro

N.A.T.O. (Patto Atlantico)

Non c’è dubbio che la caduta del muro di Berlino rappresenta uno spartiacque nella storia mondiale, in quanto innesca un continuo processo di trasformazioni geopolitiche in tutta l’area di influenza sovietica.

Si è chiusa la parentesi della guerra fredda tra i due blocchi: occidentale ed orientale, facenti capo rispettivamente al Patto Atlantico (N.A.T.O.) ed al Patto di Varsavia e si sono scongelati i rapporti U.S.A. – U.R.S.S. che, peraltro, è stata chiamata a compartecipare a molti programmi operativi NATO  e tavoli di concertazione internazionale.

Di contro è iniziato, con la compiacenza dei Paesi del Patto Atlantico, lo sfaldamento del Patto di Varsavia e della stessa U.R.S.S. (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche)  con la diaspora dei Paesi alleati che, progressivamente, hanno girato le spalle all’U.R.S.S. per affermare la propria autonomia politica ed amministrativa, molti dei quali sono entrati a far parte dell’Unione Europea, o sono in lista d’attesa per entrarvi.

La N.A.T.O. (North Atlantic Treaty Organization) è nata il 4 aprile 1949, come alleanza politico – militare, a scopo difensivo, tra i seguenti Paesi occidentali: Belgio – Canada – Danimarca – Francia – Gran Bretagna – Islanda – Italia – Lussemburgo – Norvegia – Pesi Bassi – Portogallo – Stati Uniti, a cui hanno aderito, nel 1952, anche Grecia e Turchia e, nel 1955,  anche la Repubblica Federale Tedesca.

In contrapposizione al Patto Atlantico è nato, il 14 maggio 1955, il Patto di Varsavia, trattato di cooperazione politico - militare tra i Paesi orientali dell’Albania – Bulgaria – Cecoslovacchia – Polonia – Repubblica Democratica Tedesca – Romania – Ungheria e Unione Sovietica.

L’Europa così divisa, anche se attraversata da una latente rivalità ed emulazione e qualche criticità periodica tra i due blocchi geopolitici, è riuscita ad evitare, finora, i rischi di una terza guerra mondiale.

Oggi, a distanza di 26 anni dalla caduta del muro di Berlino (1989), con la conseguente fuoruscita di molti paesi dal Patto di Varsavia ed il relativo ingresso nell'Unione Europea,  con conseguente adesione al Patto Atlantico, il quadro geopolitico dell’attuale Europa risulta del tutto rivoluzionato, per cui non sarebbe più giustificabile la sopravvivenza del Patto Atlantico ( N.A.T.O.), se e solo se  l’Unione Europea avesse saputo portare a termine l’iter per la costituzione di un governo politico soprannazionale dell’Europa, qual’era nelle previsioni dei padri costituenti, in grado di gestire in autonomia, autorevolezza e rappresentatività le sorti della comunità europea, alla quale sarebbe spettato un ruolo di primo piano nello scacchiere mondiale.

Per cui l’Unione Europea oggi, ancor priva di una identità soprannazionale forte e rappresentativa, è chiamata ad una scelta politico-economica di portata storica, condizionante sia il suo futuro che quello  dell’intera umanità:

  • inglobare nell’ U. E. anche la Russia ed i suoi satelliti, ai quali ci legano storia, cultura e religione comune, nonché recenti interessi di consistenti scambi commerciali, specie nel settore energetico per via della notevole dipendenza da gas e petrolio russo (dipendenza energetica estera dell’U.E. 54% - dell’Italia 87%), in vista della costituzione del terzo polo geopolitico ed economico mondiale, tutto europeo, accanto a quello americano ed asiatico;
  • oppure seguire la politica imperialistica degli U.S.A., sempre più distinta e distante dagli interessi europei, tenendo in piedi un’arcaica alleanza atlantica, anche se allargata ai Paesi fuoriusciti dal Patto di Varsavia, con evidente intenzione di marginalizzare il ruolo internazionale della Russia e, con esso, anche quello dell’ Unione Europea, tenuta sotto tutela e controllo, appunto, mediante la N.A.T.O., peraltro col conseguente rischio di riattizzare la guerra fredda tra U.S.A. e Russia, caricandone le spese militari ed energetiche sul groppone dell’U.E.  

Tra le due, la scelta più naturale ed opportuna per l’Unione Europea è la prima, anche se a tale scelta non va attribuita una valenza antiamericana, nazione con la quale si dovrà sempre tenere un rapporto stretto di cooperazione negli organismi a livello internazionale, che però non condizioni l’autonomia operativa europea in ambito regionale.

Una tale scelta, oltre a costituire una prova di maturità per l’Unione Europea, servirebbe a smorzare l’antagonismo U.S.A. – Russia, che ha condizionato la storia di oltre mezzo secolo, tranquillizzando da una parte la Russia, inglobata in un contesto politico - economico europeo di più ampio respiro che, potenzialmente, potrebbe raggiungere 816 milioni di persone (con riferimento al dati statistici del 2013) e quindi in grado di competere al meglio sia col mercato americano che con quello asiatico, smorzando  nel contempo le mire imperialiste degli U.S.A. e/o di qualsiasi altro astro nascente (Cina e/o India), riconducendo la gestione globale del pianeta ad una gestione condominiale, in cui l’U.E. sia validamente rappresentata.

   Amaro

O.N.U. (Organizzazione delle Nazioni Unite)

Al livello più alto delle istituzioni internazionali troviamo l’O.N.U. (Organizzazione delle Nazioni Unite) nata appena dopo la seconda guerra mondiale, e precisamente il 26 giugno 1945, con la conferenza di San Francisco, alla quale oggi aderiscono 193 stati su un totale di 204.

Questo organismo internazionale è nato con il compito specifico di salvaguardare la pace e la sicurezza in ambito internazionale, aperta all’adesione di tutti gli Stati aspiranti alla pace ed alla sicurezza sociale dell’umanità,  disposti ad accettare le condizioni sancite nella Carta delle Nazioni Unite.

Purtroppo, nel tempo, questo organismo ha perso sempre più potere e rappresentatività, al punto da diventare un enorme contenitore vuoto, ripieno solo di buone intenzioni ed apprezzabili dichiarazioni di principio a tutela dei diritti umani, in quanto che esso, oltre a non avere poteri decisionali per via del diritto di veto di uno qualsiasi dei cinque Stati membri permanenti del Consiglio di Sicurezza: U.S.A. – Russia – Cina – Francia – Inghilterra, non ha alcun potere impositivo di rispetto delle proprie deliberazioni, essendo privo di mezzi propri d’intervento.

A quasi 70 anni dalla sua costituzione, sarebbe logico ed auspicabile quindi rivedere i principi fondanti di questo organismo internazionale per approdare ad una efficiente ed operativa Corte Internazionale per i Diritti Umani (C.I.D.U.), che non sia  più una sterile vetrina di Paesi eterogenei motivati prevalentemente dalla salvaguardia di propri interessi politici, militari ed economici, ma un organismo fondato sulla condivisione ed accettazione di principi e diritti universali dell’uomo e quindi dei popoli, tra i quali può effettivamente svilupparsi una maggiore e più forte integrazione transnazionale e transcontinentale, di tipo culturale, etico, linguistico, economico ed infine anche politico, in vista di una prospettiva finale di government  mondiale.

Quest’organismo, al quale tutti gli Stati del globo terrestre potrebbero aderire, dovrebbe essere impostato sul riconoscimento paritario della dignità nazionale dei singoli Stati membri,  con relativo diritto di voto, il cui valore e peso potrebbe essere, al più, legato all’entità della rispettiva  popolazione.

Dovrebbe, inoltre, avere poteri deliberativi assoluti, al riparo quindi dagli attuali veti del Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U., oggi del tutto anacronistico e per giunta lesivo della credibilità dello stesso organismo.

Gli interventi operativi di questo organismo dovrebbero poter essere di due tipi: indiretti e diretti.

Gli interventi indiretti dovrebbero contemplare il blocco economico e finanziario del paese soggetto a giudizio, al quale può essere aggiunto il blocco delle armi, con deliberazioni approvata a maggioranza semplice nel primo caso ed a maggioranza assoluta dell’assemblea dei rappresentanti nazionali nel secondo caso.

Gli interventi diretti dovrebbero contemplare l’intervento militare nel paese soggetto a giudizio, dietro deliberazione approvata a maggioranza qualificata dei 2/3 dell’assemblea dei rappresentanti nazionali.

Dovrebbero, altresì, poter essere ammessi alle sedute di detto organismo anche i delegati di Paesi non aderenti allo stesso, esentati però dal relativo diritto di voto oltre che dall’obbligo del sostegno finanziario dello stesso organismo. 

La gestione e coordinamento di detto organismo dovrebbe essere affidata ad un Presidente, eletto con la maggioranza qualificata dei 2/3 dei voti dell’assemblea dei rappresentanti degli Stati membri, coadiuvato da un gabinetto di presidenza composto da un numero strettamente indispensabile di persone.

Per assicurare la effettiva funzionalità di questo organismo, ciascun Paese aderente dovrebbe contribuire al sostegno finanziario dello stesso con un versamento annuale pari ad una percentuale, uguale per tutti i Paesi,  del proprio Prodotto Interno Lordo (P.I.L.), in modo da consentire al suddetto organismo almeno la disponibilità di un’autonoma forza di pronto intervento operativo, sia ai fini della protezione civile, in caso di calamità naturali e non, sia ai fini di interposizione e/o di contrasto, in caso di belligeranza interetnica, con centro logistico e direzionale presso la sede C.I.D.U., da insediare, possibilmente, in un paese neutrale, come per es. la Svizzera.

Detto organismo inoltre dovrebbe disporre di osservatori stabili ed accreditati nei Paesi più a rischio del mondo, in modo da prevenire, per quanto possibile, eccidi interetnici, soprusi ed altre atrocità ai danni di popolazioni povere ed inermi.

Per un organismo strategico di questo tipo, sarebbe molto utile l’adozione di un linguaggio comune, che dovrebbe essere imposto, quindi,  come lingua ufficiale internazionale a tutti i paesi membri, accanto a quella nazionale, nella prospettiva, non tanto utopistica, di arrivare un giorno a usare nel mondo un’unica lingua comune che, permettendo il dialogo diretto ed una più intensa osmosi culturale fra i vari popoli della terra, ne intensifichi i rapporti, riducendone nel contempo anche i relativi  squilibri socio-economici.

Un organismo così strutturato avrebbe sicuramente molta più credibilità ed autorevolezza dell’attuale O.N.U. potendo costituire il grimaldello per abbattere barriere e sperequazioni sociali tra i popoli e creare, a livello mondiale, le condizioni per il raggiungimento di una sostanziale pace sociale fra tutti i popoli della terra ed arrivare ad una convivenza pacifica e solidale che consenta di assicurare a tutta l’umanità una vita degna di essere vissuta.

   Amaro

Distinzione tra Beni Artificiali e Naturali

Il nuovo modello di sviluppo socio – economico, battezzato col nome di "TERZA VIA", è distinto e distante sia dal modello comunista che da quello capitalista, pur estraendo da entrambi i suggerimenti migliori.

L’assioma fondamentale su cui poggia riguarda la riclassificazione dei beni materiali in due distinte categorie: beni artificiali e beni naturali che, quantunque logicamente condivisibile come inoppugnabile ovvietà,  comporta conseguenze rivoluzionarie sull’assetto socio-economico dell’umanità.

Esso costituisce l’equivalente dell’uovo di Colombo, da cui trae origine il nuovo modello di sviluppo che, senza mortificare la libera iniziativa privata, ne  guida e sostiene lo sviluppo in un quadro normativo di sana concorrenza di mercato, in vista di un progresso collettivo ed armonico dell’intera società nazionale e mondiale.

Volendo ricorrere ad un’ immagine artistica appropriata, il modello previsto somiglia alla tela di un quadro, raffigurante il liberismo economico, racchiusa in una cornice normativa di stampo socialista, a garanzia dei diritti naturali ed inalienabili dell’uomo, che arricchisce ed esalta il soggetto rappresentato sulla tela, anche se ne delimita nel contempo l’area.

Appartengono alla prima categoria tutti i beni che sono opera dell’attività umana, ivi compresi i mezzi di produzione, per cui sugli stessi va riconosciuto, con altrettanta logicità ed inoppugnabilità, il diritto di proprietà privata.

Appartengono alla seconda categoria tutti i beni che prescindono dall’opera e dall’ingegno umano, essendo essi parte costitutiva del nostro pianeta, per cui gli stessi non possono non costituire patrimonio comune ed inalienabile dell’intera collettività umana.

Il concetto di collettivizzazione dei beni naturali non è nuovo in quanto è stato introdotto per la prima volta dal regime comunista sovietico dopo la rivoluzione del 1917, in ossequio alla teoria Marxista – Leninista.

Da questa categorica e netta distinzione dei beni in: artificiali e naturali scaturiscono i seguenti due corollari:

  • i primi, per loro natura, possono essere oggetto di proprietà privata e quindi alienabili, a titolo gratuito od oneroso,  passando di proprietà da un soggetto ad altro;
  • i secondi invece, per loro natura, costituendo beni comuni naturali, sono inalienabili, ma non per questo  vanno necessariamente assoggettati a gestione pubblica, bensì possono essere assoggettati a gestione privata, concessa a titolo oneroso, per il loro sfruttamento, coltivazione e/o altro uso consentito dalle leggi vigenti in materia, e nei limiti in cui questa non contrasti con l’interesse di pubblica utilizzazione dl detti beni.

Le entrate derivanti dalle concessioni in gestione privata di detti beni potranno, in tal modo, essere impiegate a beneficio della collettività, in modo da garantire a ciascun cittadino un livello minimo di vita civile e dignitosa, mediante un reddito di solidarietà sociale, e questo indipendentemente dal suo contributo o meno al Prodotto Interno Lordo (PIL) nazionale.

Da questo semplice, eppur rivoluzionario, assioma ideologico nasce il postulato della Terza Via, a metà strada tra l’assolutismo politico del Comunismo e l’assolutismo economico del Capitalismo, in piena sintonia con la massima ciceroniana "in medio stat virtus".

Infatti il collettivismo praticato nei paesi soggetti al regime  comunista sovietico, peraltro esteso anche ai mezzi di produzione oltre che ai beni naturali, pur assicurando a tutti i cittadini un livello minimo di sopravvivenza, ne ha mortificato lo spirito e fiaccato la volontà, inducendo gli stessi a vivere una forma di vita vegetativa, simile a quella degli animali  da zoo, ai quali è assicurato il pasto quotidiano per la sopravvivenza, ma è negata ogni libertà di movimento e di azione, tanto da estinguere in essi l’interesse alla vita.  

Al contrario, il liberismo economico praticato nei paesi dell’occidente, dando libera stura alla creatività ed agli appetiti umani, ha portato questi a raggiungere livelli medi di vita indubbiamente superiori a quelli dei paesi comunisti, anche se ultimamente, con la globalizzazione dei mercati, si registrano situazioni sempre crescenti di indigenza assoluta  ed un consistente arretramento economico della classe media a fronte di una sempre più accentuata concentrazione della ricchezza nelle mani di un numero sempre più ristretto di persone.

In prospettiva, quindi, è prevedibile la concentrazione di risorse  finanziarie ed economiche sempre più ampie, a livello internazionale, al punto da non poter essere più controllate da parte dei singoli governi nazionali, e tali da interferire e perfino condizionare la politica economica degli stessi, nel perseguimento di obiettivi di profitto privato sempre crescente, a danno della salvaguardia dei diritti sociali fin qui raggiunti, con dure lotte sindacali, nei paesi economicamente e socialmente più evoluti dell’occidente.

E questo perché il capitalismo odierno ha cambiato natura e pelle rispetto a ieri, in quanto  da capitalismo industriale a gestione familiare, legato quindi al settore di produzione, alle sue maestranze ed al territorio d’origine, si è trasformato sempre più in  capitalismo finanziario, più volatile e mobile, che non risponde più alla classe imprenditoriale padrona, vecchio stampo, ma a masse indefinite di azionisti, distinti e distanti sia dai processi produttivi che dai problemi tecnico – economici e sociali  dell’ azienda, ed il cui fine primario ed unico è la redditività del capitale investito.

Gestione dei beni naturali
Mentre la gestione dei beni privati non comporta problemi, in quanto è affidata alla libera iniziativa e capacità imprenditoriale dei rispettivi proprietari, quella dei beni naturali va opportunamente regolamentata, cercando di non ripetere gli errori del sistema comunista sovietico che, oltre a centralizzare i poteri di specifica e stretta competenza politica ed amministrativa, ha accentrato anche quelli di gestione dell’ economia nazionale.

Ed è proprio la programmazione e gestione centralizzata della produzione che, nel tempo, ha finito per mortificare ed infine annientare lo spirito di iniziativa privata, riducendo tutto l’apparato produttivo ad un elefantiaco carrozzone statale che, a causa del peso del suo pletorico organico e della sua inerzia operativa, ha finito per schiacciare il sistema produttivo, facendo scendere il suo indice di produzione a livelli minimi; dal che la penuria di prodotti e mezzi di sussistenza, con conseguente malcontento sociale, sfociato nella rivoluzione incruenta del 9 novembre 1989, con l’abbattimento del muro di Berlino.

Questa esperienza, che anche l’Italia, marginalmente, ha vissuto attraverso la gestione pubblica di alcune aziende sia di produzione che di servizi, insegna che va nettamente distinta la funzione dello Stato da quella degli altri soggetti sociali.

Allo Stato va affidato il compito di indirizzo politico, economico e sociale del paese, attraverso la pianificazione del territorio e la sua difesa, la garanzia dell’ordine pubblico, della legalità e della giustizia sociale, nonchè la gestione dei servizi amministrativi, scolastici, sanitari e sociali, lasciando ai privati l’esercizio e la gestione di tutte le altre attività imprenditoriali, in uno spirito di leale concorrenza che lo Stato deve  garantire per creare una vera economia di mercato.

In quest’ottica quindi, anche la coltura, lo sfruttamento e l’uso in generale dei beni naturali, eccezion fatta per quelli a destinazione di pubblica utilità, va affidata a soggetti economici privati, singoli od associati che siano,, mediante eventuale concessione a titolo oneroso, commisurato quest’ultimo alla destinazione ed uso previsto per gli stessi nell’ambito di una pianificazione nazionale e/o locale, fermo restante il riconoscimento del diritto di proprietà privata su tutte le opere, strutture e sovrastrutture funzionali alla gestione di detti beni, realizzate con mezzi e fondi privati.

La distinzione dei beni in artificiali, di pertinenza privata, e naturali, di pertinenza pubblica, anche se a gestione privata, costituisce la pietra miliare di una nuova visione sociologica del mondo atta, da sola, a rivedere l’ambito e la misura dei diritti umani, e a ridisegnare un quadro di maggiore giustizia sociale, a fronte di una compartecipazione naturale agli utili derivanti dalla coltivazione, sfruttamento ed uso a fini produttivi dei beni naturali.

Ma la conseguenza più eclatante della suddetta distinzione si avrebbe nella gestione del territorio, a proprietario unico (lo Stato), che oltre a semplificarne notevolmente la gestione ed il controllo, con conseguente dimagrimento del pletorico organico dell’Agenzia del Territorio (ex U.T.E.), comporterebbe, anche la rimozione dell’enorme contenzioso giudiziario attualmente esistente sia tra privati, per controversie di confini, sia tra pubblico e privati, derivanti da espropri per pubblica utilità; senza contare della conseguente ricaduta positiva anche sugli abusi edilizi, in quanto le realizzazioni su suolo pubblico, senza relativa autorizzazione degli organi competenti, ricadrebbero automaticamente in proprietà dello Stato.

Inoltre, verrebbero a cadere tutte le difficoltà, derivanti dalla difesa di interessi privati, che oggi penalizzano pesantemente l’iter tecnico - amministrativo dei piani di sviluppo urbanistici e territoriali, per la cui definitiva approvazione, attualmente, si impiegano tempi generalmente  superiori al loro stesso periodo di validità previsionale.

Effetto non secondario, infine, il contemporaneo raffreddamento delle tensioni, sia economiche che sociali, che oggi si vivono nel settore dell’edilizia residenziale potendosi, in questo caso, riequilibrare il rapporto tra domanda ed offerta mediante una turnazione delle assegnazioni dei singoli lotti edificabili a favore dei soggetti attuatori (imprese, cooperative edilizie e singoli cittadini) in modo da impedire la concentrazione di suoli edificatori nelle mani di pochi soggetti, motivo essenziale oggi di speculazione edilizia, a scapito del libero mercato e della sana concorrenza.

Oltretutto la disponibilità di suolo pubblico a fini edificatori, abbasserebbe considerevolmente la sua incidenza economica sul costo finale delle costruzioni edili, che si tradurrebbe a sua volta in un vantaggio economico per tutti ii cittadini (in termini di prezzo di acquisto e/o di corrispondente canone di locazione), recuperabile in tutto od in parte sui loro salari e stipendi, cosa che consentirebbe di  abbassare corrispondentemente i costi di produzione dei prodotti nazionali, in modo da resistere meglio alla concorrenza del mercato internazionale, a salvaguardia dell’occupazione sul territorio nazionale.

Queste considerazioni, da sole, giustificano ampiamente, sia sotto il profilo socio–economico  che squisitamente giuridico e politico, l’acquisizione del postulato sulla distinzione dei beni in: artificiali e naturali, con tutte le implicazioni  di cui innanzi.

   Amaro

Il Potere Esecutivo

In Italia il potere esecutivo è affidato al Governo, costituito da un Presidente, indicato già in fase elettorale dal partito o coalizione partitica vincente, più un Consiglio di Ministri, costituito da un appropriato, ma non ben definito, numero di Ministri.

In base all’art. 92 della Costituzione è il Presidente della Repubblica  a nominare il Presidente del Consiglio e, su proposta di questi, anche i relativi Ministri e segretari ministeriali i quali, prima di assumere le funzioni, devono prestare giuramento ed ottenere la fiducia dei due rami del Parlamento, come prescritto dagli articoli 93 e 94 della Costituzione.

Anche ai componenti del Governo, come ai parlamentari, dovranno essere assicurati, gratuitamente, tutti i servizi necessari all’espletamento della loro funzione governativa, oltre ad un congruo onorario, rientrante comunque nell’ambito della scala parametrica relativa al  comparto del pubblico impiego.

Al Governo è demandato il compito di indirizzo politico, economico e gestionale del paese, lasciando fuori la gestione organizzativa degli altri due poteri costituzionali (Giudiziario e Legislativo).  

Pertanto ad esso è attribuito il compito di redigere i bilanci di previsione annuali e pluriennali che si rendessero necessari, da sottoporre all'approvazione del Parlamento prima della loro operatività. Il bilancio è la carta d'identità di un Governo, per cui deve essere quanto più chiaro e completo possibile, distinto possibilmente in sottobilanci per singole amministrazioni ministeriali ed organi statuali, in modo da  avere un quadro chiaro e dettagliato delle poste in gioco in uscita ed in entrata nelle varie direzioni, per un controllo continuo e globale della situazione della finanza pubblica.

Attraverso i Ministeri della Difesa e dell’Interno, il Governo gestisce direttamente sia le forze armate (Aviazione, Esercito  e Marina), preposte alla difesa esterna del paese, che  i Corpi di: Carabinieri, Finanza e Polizia, preposti all’ordine e sicurezza interna del paese.

 Amaro

Limiti dell’Unione Europea

Il 18 aprile 1951, con il trattato di Parigi tra: Francia – Italia – Germania – Belgio – Olanda – Lussemburgo, nasceva in Europa occidentale la C.E.C.A. (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), il primo organismo soprannazionale, con l’intento di unificare il mercato carbosiderurgico, eliminando sperequazioni di prezzi e tariffe nel settore.

Successivamente, il 25 marzo 1957 le stesse nazioni firmavano il trattato di Roma per dar vita alla C.E.E (Comunità Economica Europea), al fine di istituire un mercato comune europeo mediante un allineamento delle politiche economiche degli Stati membri e giungere in prospettiva all’abolizione sia dei dazi doganali interni che dei contingentamenti degli scambi commerciali interni, in modo da permettere in definitiva la libera circolazione di persone, capitali e merci all’interno della Comunità.

Nella cornice storica del momento questo, forse, era il massimo di disponibilità che si poteva richiedere agli Stati membri aderenti ai trattati di cui innanzi, che muovevano i primi passi verso l’integrazione politica europea, alla quale miravano i promotori di detti organismi comunitari.

La nascita dell'attuale Unione Europea avviene con il trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1° novembre 1993.

Sono ormai trascorsi 64 anni dalla data del primo trattato, ma il progetto politico intravisto dai padri fondatori della Comunità Europea resta ancora un obiettivo da raggiungere, benché la Comunità si sia allargata fino a comprendere 28 paesi (Austria/1995, Belgio/1957, Bulgaria/2007, Cipro/2004, Croazia/2013, Danimarca/1973, Estonia/2004, Finlandia/1995, Francia/1957, Germania/1957, Grecia/1981, Irlanda/1873, Italia/1957, Lettonia/2004, Lituania/2004, Lussemburgo/1957, Malta/2004, Paesi Bassi/1957, Polonia/2004, Portogallo/1986, Regno Unito/1973, Repubblica Ceca/2004, Romania/2007, Slovacchia/2004, Slovenia/2004, Spagna/1986, Svezia/1995, Ungheria/2004). 

 

Questo perché il progetto è partito da un binario sbagliato: quello economico, che difficilmente porta all’integrazione dei popoli per le naturali divergenze di interessi in gioco, per cui oggi l'Unione Europea è relegata al ruolo di mediatrice fra opposti interessi nazionalistici, privilegiando il più delle volte gli Stati membri ad economia forte in danno di quelli ad economia debole, nell'impossibilità di esprimere un’identità veramente soprannazionale, in grado  di svolgere un ruolo significativo a livello internazionale, come hanno recentemente dimostrato i drammatici avvenimenti della Siria e dell’Ucraina.

Per uscire dal tunnel, forse sarebbe opportuno puntare al progetto unitario mediante un processo di realizzazione progressiva, partendo dall’Unione degli Stati Europei più maturi e convinti sulla opportunità di unire le proprie forze per acquisire all'Europa una rappresentanza adeguata al suo peso storico, culturale ed economico e poter condizionare i giochi geopolitici nel mondo.

Alla base del progetto unitario, accanto alla moneta comune (€), non dovrà mancare il legante basilare di una comunità rappresentato da un idioma comune, da affiancare alla lingua nazionale degli Stati membri, ed istituzioni governative soprannazionali, con effettivo potere politico, legislativo e di governo, nell’ambito dell' Unione, nonché di rappresentanza unica a livello internazionale. 

Questo procedimento oltre ad accelerare la costituzione politica dell’Unione Europea, lascerebbe agli altri Paesi aspiranti all'ingresso nella U.E., ma non ancora del tutto convinti, il tempo necessario per maturare la propria adesione, senza però, nel frattempo, consentir loro interferenze  e veti che frenino il processo di unione effettiva del gruppo di testa (vedi il ruolo ambiguo finora svolto dal Regno Unito, culminato con la Brexit a seguito del risultato referendario del 23 giugno 2016, che ha visto i voti favorevoli all'uscita dall'Unione Europea prevalere con il 51,9%).

Questa sarebbe l’unica via da imboccare per far uscire l’Unione Europea dall’attuale impasse; diversamente, forse sarebbe più conveniente uscirne, in modo da liberarsi dai vincoli dei trattati comunitari sottoscritti e poter perseguire una politica nazionale interna ed estera più rispondente alle esigenze specifiche del proprio Paese.

In quest’ottica l’Italia, per il suo antico retaggio storico, per la sua cultura aperta al mondo, nonché per la sua naturale collocazione geografica  al centro del Mediterraneo, potrebbe aspirare  a svolgere un importante ruolo di cerniera tra i Paesi del Nord e del Sud Mediterraneo, dell’Est ed Ovest Europeo, imponendosi a livello internazionale con una propria politica estera più attiva e propositiva (se solo avesse gli uomini giusti di governo); magari puntando a costituire l’Unione Mediterranea (U.M.), che coinvolga tutti i Paesi che si affacciano sul mare nostrum, area di confronto storico tra le varie culture sviluppatesi lungo le sue sponde e quindi testimone storico di un intreccio culturale ed economico, forse, più forte di quello che attualmente lega i Paesi dell’Unione Europea.

Oggi l’U.E, oltre a confrontarsi con il problema di integrazione ed omogeneizzazione interna, in vista di una gestione politica ed economica soprannazionale, si deve confrontare anche con il fenomeno dell’immigrazione di massa proveniente, prevalentemente, dai paesi meno sviluppati dell’area sud – orientale del globo terrestre.

Il fenomeno, innescato dalla globalizzazione dell’informazione digitale, nonché dalla suggestione dei messaggi televisivi trasmessi dalle televisioni dei paesi occidentali, ha raggiunto una dimensione biblica, contro la quale non ci sono norme nazionali ed europee che tengano.

Oltretutto, di fronte allo stato di disperazione che spinge i popoli a trasmigrare, affrontando lunghissimi ed estenuanti viaggi e mettendo in gioco il rischio della stessa vita, l’opinione pubblica occidentale è disarmata, combattuta tra il sentimento di carità cristiana, dettato dalla coscienza comune, e la consapevolezza che non si possono aprire incondizionatamente le frontiere a quella che sembra essere una vera invasione, col rischio di compromettere l’equilibrio socio - economico e perfino etnico del proprio paese.

Per cui penso che, per arginare il fenomeno dell’immigrazione, più che ricorrere a norme e leggi speciali nell’ambito dei singoli paesi membri dell’Unione Europea,  si debba ricorrere ad interventi esterni, nei paesi d’origine della migrazione, con l’adozione di una politica estera comune di tutto il mondo occidentale e dei paesi evoluti in generale, ognuno dei quali dovrebbe assumersi il carico  di un moderno  protettorato, o meglio partenariato, di uno o più paesi emergenti, secondo una convenzione internazionale, rinnovabile periodicamente alla relativa scadenza, in modo da guidare quest’ultimi verso traguardi di stabilizzazione politica nella democrazia, di acquisizione di modelli amministrativi ed organizzativi della società adatti ai tempi e realizzazione di tutte quelle infrastrutture e servizi indispensabili per la crescita socio - economica degli stessi, in modo da elevare il tenore di vita delle relative popolazioni, con conseguente stagnazione delle spinte migratorie e, ove mai fosse necessario attingere forza lavoro da detti paesi, qualificare sul posto e  selezionare alla partenza, la manodopera richiesta dal paese protettore (partner), vincolando peraltro quest’ultimo ad accettare solo ed unicamente lavoratori provenienti dal paese assistito.

Dette operazioni, logicamente, dovrebbero poter contare sul supporto finanziario del Fondo Monetario Internazionale che, in tal modo, avrebbe la possibilità di controllare meglio, attraverso la cogestione dei finanziamenti da parte dei paesi protettori, la destinazione e l’utilizzo effettivo degli stessi.

Un’operazione del genere, attuata in larga scala, oltre a raggiungere l’obiettivo di una stagnazione quasi immediata del flusso migratorio clandestino, comporterebbe una maggiore stabilizzazione politica mondiale ed un conseguente ampliamento del mercato globale, attraverso il coinvolgimento di paesi poveri ed arretrati, benché detentori di notevoli risorse naturali.

   Amaro